Quanti centri di espulsione ci sono in Italia?

Da marzo 2023 i Cpr operativi sono nove, a seguito della chiusura di quello di Torino, devastato dalle rivolte il mese precedente:

  • Bari (riaperto a novembre 2017)
  • Brindisi (riaperto nell’autunno 2015)
  • Caltanissetta (chiuso tra aprile 2020 e maggio 2021)
  • Gradisca d’Isonzo (riaperto a dicembre 2019)
  • Macomer (entrato in funzione a gennaio 2020)
  • Milano (entrato in funzione a ottobre 2020)
  • Roma – Ponte Galeria (l’unico ad avere un settore femminile. Il settore maschile è invece rimasto chiuso tra il 2015 e giugno 2019)
  • Palazzo San Gervasio (entrato in funzione nel 2018, chiuso tra maggio 2020 e febbraio 2021)
  • Trapani (chiuso tra aprile 2020 e agosto 2021)

A febbraio 2024 sembrava che il Cpr di Trapani fosse diventato totalmente o in gran parte inagibile a causa delle rivolte, ma non sono arrivate conferme ufficiali.

Il ministro Piantedosi intende portare avanti il piano già di Maroni e Minniti di aprire almeno un centro rimpatri in ciascuna regione. A partire dal 2023 ci sono stati sopralluoghi in varie località, tra cui Ferrara in Emilia Romagna e Diano Castello e Albenga in Liguria, dove le popolazioni e i politici locali, anche di destra, hanno manifestato forte contrarietà e organizzato raccolte firme, sit-in e convegni.

In Trentino Alto Adige e nelle Marche i sopralluoghi hanno suscitato meno reazioni. L’ultima località di cui si è parlato è Catanzaro in Calabria, dove il sindaco ha già detto di essere contrario.

La capienza totale dei Cpr al 31 dicembre 2021 era di 804 posti.

Il tempo di permanenza medio negli ultimi tre anni è stato di 36-38 giorni.

La percentuale dei rimpatri è sempre tra il 49 e il 50%.

Ci sono forti disparità tra un centro e l’altro. I più efficienti sembrano quelli siciliani (15 giorni a Caltanissetta, 16 a Trapani, con percentuali di rimpatrio dell’84% e del 66%), il peggiore sembrerebbe essere quello di Macomer, in Sardegna, con 72 giorni di permanenza media e 23% di rimpatri.

Nel 2022 sono stati rimpatriati 6.383 stranieri, di cui solo 57 donne.

Ogni tanto i Cpr chiudono per ristrutturazione, anche a seguito dei danni subiti nel corso delle rivolte. Quando rientrano in funzione non viene emesso un comunicato ufficiale, per cui ci si rende conto della riattivazione solo dai comunicati dei singoli accompagnamenti che vengono pubblicati in cronaca locale. La stampa non è ammessa nelle strutture, per evitare strumentalizzazioni da parte dei migranti e per motivi di privacy. Ma i giornalisti non vengono ammessi neanche prima della riapertura, per valutare l’entità dei lavori, di cui comunque nessuno mette in evidenza i costi.

A marzo 2021 le persone recluse nei Cpr erano 425. Il numero è calato notevolmente a causa della pandemia. A maggio 2020 ne erano rimasti solo 178, poco più del 30% di una capienza teorica che dovrebbe essere di 525 posti.

Secondo i dati diffusi dal Garante dei detenuti il primo maggio 2021, i reclusi erano rimasti solo 229: 71 a Torino, 44 a Gradisca, 41 a Macomer, 31 a Roma nel settore maschile più 6 nel settore femminile, 17 a Palazzo San Gervasio, 11 a Brindisi, 8 a Bari.

A dicembre 2018 i posti disponibili erano 715, sui 1.035 previsti sulla carta. Si stava lavorando per arrivare nel giro di due mesi alla capienza massima.

A Roma l’intero settore maschile è rimasto fuori uso per mesi. Quello femminile invece è l’unico in Italia.

Nei primi mesi del 2020 era attesa l’apertura del Cpr Modena, oltre a quello di Milano. La pandemia ha fatto slittare tutto, ma mentre in Lombardia il centro è poi entrato in funzione, in Emilia Romagna la procedura si è bloccata, forse per contrasti con la proprietà dello stabile.

Ai tempi di Minniti era previsto l’ampliamento del Cpr di Caltanissetta, e forse l’apertura di un Cpr in Calabria (a Oppido Mamertina, Reggio Calabria).

Una commissione d’inchiesta sui centri per l’immigrazione è stata in funzione per alcuni anni, ma non ha pubblicato l’elenco dei Cpr aperti. In effetti si è pure rifiutata di pubblicare un rapporto finale al termine della legislatura, nella primavera del 2018.

Più efficiente la Commissione Diritti Umani del Senato nella legislatura che si è conclusa nel 2018, che ha pubblicato un paio di rapporti dettagliati, con l’elenco dei Cie esistenti, in funzione e chiusi, con dati sulla capienza massima, la capienza effettiva, e l’ente gestore. L’ultimo risale  ai primi mesi del 2017, con dati relativi alla fine del 2016. I centri funzionanti, all’epoca, erano solo quattro: Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino.

A ottobre 2021 l’Associazione Italiana Libertà e Diritti Civili ha pubblicato un rapporto dettagliato, con mappa dei Cpr presenti sul territorio e schede sulla situazione di ciascun centro.

In seguito ha pubblicato un rapporto dettagliato su chi sono gli enti gestori.

In origine i centri di espulsione presenti sul territorio nazionale erano 13. Uno dopo l’altro, sono stati chiusi, anche a seguito di rivolte che li hanno devastati e resi inagibili. A gennaio 2017 la capienza era scesa a 359 posti disponibili, sulla carta, di cui solo 288 occupati (degli oltre 1.300 che sarebbero dovuti essere).

Nello stesso periodo il ministro Minniti annunciava il piano di aprire un centro per i rimpatri in ogni regione (progetto che era stato già del suo predecessore Maroni, nel 2011) per far risalire la capienza a 1600 posti. Venivano escluse solo Valle d’Aosta e Molise.

Per superare le resistenze interne nel suo stesso partito, si decise il cambio di nome, da Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) a Cpr (Centri di Permanenza per i rimpatri). Si disse che sarebbero stati piccoli (80-100 posti) e che sarebbero serviti per rimpatriare i criminali. Poi sono stati diffusi bandi da 150 posti, e ci si è dimenticati di mettere per iscritto che gli stranieri non pericolosi o non pregiudicati non dovevano essere rinchiusi. Del resto il Governo non abolì il reato di clandestinità, cosa che era stato delegato a fare con un voto del Parlamento.

I centri di detenzione per migranti sono stati creati nel 1998. Il governo era di sinistra (Romano Prodi), la legge istitutiva porta le firme di Livia Turco e Giorgio Napolitano. Il nome originario era Cpt (Centri di Permanenza Temporanea), che rimase fino al 2011, quando il governo Berlusconi scelse il nome di Cie, che è durato sei anni.

Il governo Meloni ha riportato il tempo di permanenza massimo a 18 mesi, il massimo previsto dalla normativa europea. La sinistra lo aveva abbassato a tre mesi, o quattro per gli stranieri provenienti da un Paese verso il quale l’Italia ha accordi di rimpatrio particolari. Fino all’ottobre 2020 era di 6 mesi. Ed era di sei mesi anche nel 2011, quando era stato portato a 18, per essere poi abbassato a 3 nel 2014 e raddoppiato nel 2018. Se entro questo periodo lo straniero non può essere identificato e rimpatriato, viene rilasciato, ma senza essere regolarizzato. Questo vuol dire che comunque non può trovare un lavoro, e se dopo un certo tempo viene trovato ancora sul territorio italiano, può anche essere riportato al Cpr.

Secondo alcuni, se l’identificazione non avviene nei primi tre mesi non avviene più. Trattenere ulteriormente lo straniero significherebbe soltanto occupare inutilmente un posto utilizzabile in alternativa da uno straniero che è possibile rimpatriare. Per la destra, il lato positivo è che lo straniero irregolare viene tenuto lontano dalla strada e dal crimine per più tempo. Il lato negativo è che non necessariamente lo straniero che finisce al Cpr ha commesso o intende commettere reati. Si tratterebbe quindi di detenzione immotivata e quindi di violazione dei diritti umani.

Il tempo di permanenza massimo non ha nulla a che vedere col tempo necessario ad effettuare un rimpatrio, che in certi casi può essere anche di pochi giorni. Purtroppo dati precisi non vengono diffusi costantemente, quindi l’opinione pubblica non è in grado di dire quanto tempo viene trascorso in media dagli stranieri nei Cpr. Secondo i dati diffusi dal Garante dei detenuti, il tempo di permanenza medio varia da centro a centro: si va da un minimo di 2 settimane a un massimo di 2 mesi.

Talvolta sono state diffuse statistiche sul tasso di rimpatri a partire dai Cpr. Il dato tende ad avvicinarsi al 50%, cioè in un caso su due lo straniero che è stato chiuso nel Cpr non può essere rimpatriato, o per impossibilità di identificarlo o assenza di collaborazione da parte delle autorità del suo paese d’origine, oppure perché emergono motivi per concedergli un permesso di soggiorno di qualche tipo.

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